Campo Marzio

Posted on 11/10/2022

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“Alle persone che ho amato o conosciuto e ai luoghi in cui ho vissuto o che ho solo visitato”.

Quando a ripercorrere la tua vita passata non sei tu ma è la stessa vita che nel suo evolversi ti riporta nei luoghi della tua infanzia e prima giovinezza, allora vien dato di pensare ad un destino che voglia compiersi chiudendo il cerchio della vita e riportandoti alle origini, dal punto in cui sei partita e dal quale tanta vita ha avuto inizio. C’è un orologio biologico che inesorabilmente scandisce il fluire del tempo nella nostra vita quotidiana che ci porta in avanti, come un fiume in cui mille rivoli confluiscono e ne aumentano la portata e l’ampiezza, così vi è anche il ripercorrere della memoria la nostra vita passata, con le gioie e i dolori che l’hanno attraversata, con le persone che abbiamo perduto e con quelle che, vivendo, abbiamo accolto.

Centrale all’esperienza di quegli anni era la via dove la sorella di mio padre aveva un negozio e, come molti commercianti della zona, sopravviveva negli anni in cui l’Italia provava a risollevarsi dopo gli eventi bellici della prima metà del secolo scorso. In via di Campo Marzio al civico 35 c’era una tintoria la cui insegna aveva la pretesa di definirla “La Migliore” e lo sarebbe anche stata se mia zia non avesse avuto due difetti che mal si addicono al buon andamento degli affari. Uno era quello di trattenere le persone per perfezionare la consegna, anche quando i clienti dimostravano una certa fretta e l’altro quello di rovinare talvolta capi con trattamenti inappropriati, cosa che comportava il risarcimento del danno. Fortunatamene non accadeva spesso, inoltre poteva contare sulla competenza delle persone che aveva intorno. In particolare ricordo un abito da sposa diventato piccolissimo che fu puntulmente ripagato. Mia madre fece qualche aggiustamento e ne ricavò un bell’abito per me. Per farmi felice mio padre comprò un paio di sandaletti dorati che mi davano un aspetto regale ed io sfoggiai entrambe le cose come una piccola principessa.

Via di Campo Marzio, un po’ di storia

Via di Campo Marzio è situata al centro di Roma tra Piazza del Parlamento e Piazza San Lorenzo in Lucina e prende il nome dall’antico “Campo di Marte”, l’area che gli antichi romani dedicavano agli esercizi militari e ginnici. Giuseppe Verdi soggiornò nell’inverno del 1859 al civico 2 durante la prima rappresentazione del “Ballo in maschera”. Tra palazzi cinquecenteschi con fregi in travertino e gigli araldici, edifici seicenteschi quali Palazzo Marescotti e il palazzo settecentesco in cui si insediò, nel 1889, il Grande Oriente della Massoneria con le tre Logge Rienzi, Spartaco e Propaganda. Poi ancora Palazzo Magnani, un edificio del settecento a tre piani in cui vi ebbe sede anche l’Accademia Filodrammatica Romana e il palazzo del Consolato di Spagna, costruito dall’architetto fiorentino Ferdinando Fuga nel 1740, su case preesistenti, ristrutturato nel 1928.

La mia storia

La storia che voglio raccontare non è quella di nobili estinti che hanno lasciato l’impronta della loro opulenza e magnificenza nell’architettura degli edifici in cui vivevano, poiché quelle sono notizie reperibili su qualsiasi sito o libro d’arte. Voglio invece parlare della vita di persone comuni, famiglie e commercianti che vivevano in quella zona e che, trasversamente, appartengono ai ricordi della mia lontana e felice infanzia.

Non lontano da Fontana di Trevi, a Via del Pozzetto 122, abitava parte di quella che era la famiglia di mio padre, i miei nonni, mia zia e uno dei miei fratelli. Quella di mio padre era una famiglia di origini piemontesi, appartenuta alla ricca borghesia dell’epoca, con parenti sparsi in varie zone del mondo, Svezia, America, Giappone, Francia. Improntata al multiculturalismo, con interscambi con le persone che di volta in volta interagivano con noi e che arricchivano la nostra vita con esperienze ed informazioni che, in un’epoca in cui viaggiare non era possibile a tutti, diventavano preziose e costituivano interessanti spunti di conversazione.

Santa Maria della Vallicella o Chiesa Nuova

In un piccolo avvallamento del Campo Marzio c’era, sin dal XIII secolo, una piccola Chiesa dedicata alla Natività della Vergine raffigurata in un miracoloso affresco trecentesco che, colpito da un sasso nel 1535, avrebbe sanguinato. La Chiesa è legata alla figura di San Filippo Neri “Apostolo di Roma” canonizzato nel 1622 che i romani ricordano come “Pippo bbono”.

Nel 1575, venne affidata da Papa Gregorio XIII a Filippo Neri, fondatore della Confraternita dei Pellergrini e dei Convalescenti, il quale dedicò il proprio impegno alla ricostruzione e alla grandiosità della chiesa della Vallicella. La ricostruzione, che iniziò con Matteo Bartolini di Città di Castello e nel 1583 proseguì con Martino Longhi Il Vecchio, le valse l’appellativo di “Chiesa Nuova”, nome con il quale è conosciuta ancor oggi.

La Chiesa, di stile manierista, solo nel 1605 ebbe la facciata compiuta che si presenta con due ordini di colonne corinzie, al piano di sopra una finestra balaustrata tra colonne e, ai lati, due nicchie con le statue di San Girolamo e San Gregorio Magno.

L’interno, a tre navate, reca nella volta di quella principale l’affresco di Pietro da Cortona: il “Miracolo della Madonna”, nella cupola il “Trionfo della Trinità” e nell’abside “L’Assunta e Santi”. L’altare maggiore è ornato dalla pala di Rubens “Angeli in Venerazione della Madonna”, dietro, grazie ad un sistema automatizzato, è visibile l’affresco trecentesco che avrebbe sanguinato. Sempre di Rubens due tele laterali raffiguranti i “Santi Gregorio Magno, Mauro e Papia e i Santi Domitilla, Nereo e Achilleo” opere del 1608. A sinistra dell’altare si trova la cappella di San Filippo Neri, ricca di marmi pregiati, pietre dure e madreperla. Nella sagrestia, del 1629, opere di Pietro da Cortona, Alessandro Algardi, Guido Reni, Guercino e di Giuseppe Cesari Cavalier d’Arpino. La Chiesa fu consacrata nel 1599 e di fianco si trova il palazzo dei Filipini, opera di Francesco Borromini realizzata trta il 1637 e il 1643.

Nella Chiesa Nuova vennero celebrati i funerali di Trilussa, poeta romanesco, quelli di Franco Lechner, in arte Bombolo, attore del Bagaglino e quelli di Giovanni Leone che fu Presidente della Repubblica Italiana e nel 1953 in questa stessa Chiesa ho ricevuto il Battesimo.

La pasticceria Bella Napoli

A Corso Vittorio Emanuele II, di fronte alla Chiesa Nuova, c’era un’antica pasticceria, ora sparita, dove si potevano gustare le migliori sfogliatelle di Roma, insieme ad altre specialità napoletane.

«La sfogliatella nasce nel XIII secolo nel Conservatorio di Santa Rosa da Lima, a Conca dei Marini (Salerno), quasi per caso: era avanzata nella cucina del convento un po’ di pasta di semola; invece di buttarla, fu aggiunta frutta secca, zucchero e limoncello, ottenendo un ripieno. Fu utilizzato allora un cappuccio di pasta sfoglia per ricoprire il ripieno e venne tutto riposto nel forno ben caldo. Il dolce riscosse molto successo tra gli abitanti delle zone vicine al convento, prendendo il nome di Santarosa in onore della santa a cui era dedicato il convento. Nel 1818, il pasticcere napoletano Pasquale Pintauro entrò in possesso della ricetta segreta della Santarosa, portando il dolce a Napoli, modificando leggermente la ricetta e introducendo la variante riccia-sfoglia» (Fonte Wikipedia).

I negozi spariti e l’indigestione di gelati

In un’occasione in cui sono tornata a Campo Marzio ho constatato gli effetti di quello che fu una specie di spostamento della borghesia locale verso le periferie, attraverso la vendita di palazzi e negozi che venivano parcellizzati e rinvenduti alla borghesia emergente che economicamente contava di più. Negozi di lusso hanno sostituito quelli che furono i pionieri del commercio del dopoguerra, l’antico panificio della famiglia Natalucci o il bar dei fratelli Marangoni che riuniva un po’ la gioventù del posto. Sparita è anche la latteria di Vicolo della Torretta che vendeva latte, yogurt e derivati in cui la zia Maria mi portava spesso. Ricordo di averle detto, in una delle tante occasioni, con un pochino d’ingenua ma furbesca malizia, che non le avrei chiesto la pastarella, poiché mia madre m’aveva proibito di farlo, visto che conosceva la mia tendenza a chiedere tutto ciò che mi piaceva. Sparito è anche il negozio di tappi di sughero di fronte a quello della zia Bianca in cui, nelle sere d’estate, il padrone sedeva all’esterno per godersi il fresco, poiché allora non c’erano i condizionatori che rendono la temperatura più piacevole all’interno quando fuori si soffoca per la calura. Vita breve ha avuto anche Fassi, la gelateria all’angolo che per l’inaugurazione offriva gratuitamente i gelati ed io quel giorno ero là. Non so quanti ne ho mangiati per procurarmi un’indigestione, cosa che ha determinato un’avversione per il gelato al cioccolato e per riconciliarmi con tale prelibatezza ho dovuto arrivare agli anni del mio primo amore, ma di questo parlerò in seguito.

I miei genitori

Ora per dare un senso al mio racconto, devo parlare della mia famiglia e del perché, pur abitando in un’altra zona, la nostra vita per gran parte si svolgesse intorno a quel negozio. Mio padre, pur amandoci sinceramente, per sua indole, acquisita durante gli anni in cui la sua famiglia avrebbe dovuto aiutarlo nel periodo della transizione in cui il bambino si trasforma in adolescente e poi diventa uomo, non riusciva a dare stabilità economica alla nostra famiglia. Sono nata quando i miei genitori abitavano a Piazza Capranica in un palazzo al centro di Roma, negli anni in cui abitavamo sempre in subaffitto. Un’altro indirizzo che ricordo è Via dei Coronari 222, una delle vie più belle e antiche della capitale, famosa per i negozi d’arte e antichità. Un grande portone verde sormontava l’ingresso, ed è rimasto tale anche nel tempo perchè di recente ho avuto modo di tornare in quella zona. Questo peregrinare però è cessato quando mia madre ha deciso di prendere le redini della situazione e tornare a lavorare. Qui entra in scena Campo Marzio la zona in cui mia madre lavorava, poiché ricevendo il corrispettivo “in nero”, come la maggior parte delle persone all’epoca, non aveva un solo lavoro, assicurandosi così la continuità delle entrate anche nel malaugurato caso che ne avesse perduto uno. Insomma quello che poi ho imparato a scuola in tecnica bancaria, cioè la diversificazione degli investimenti, io l’avevo già imparato nella vita da mia madre.

A Via in Lucina, ad angolo con Piazza del Parlamento, c’era il laboratorio artigianale di Pietro Cazzaniga, dove mia madre faceva la sarta ed era un’apprezzata asolaia, molte volte sono andata con lei al lavoro. Ricordo l’appartamento costituito da un’ingresso in cui immediatamente a sinistra c’era una cucina ad elle un po’ buia, poichè l’unica finestra sul lavandino di pietra, dava su una chiostrina interna. Dal corridoio sempre a sinistra si accedeva ad un piccolo salottino con uno specchio per la prova degli abiti ai clienti e di fronte una sala in cui c’erano due banconi da lavoro messi ad elle, una macchina da cucire di fronte, sotto le finestre, e una stanza in fondo dove il titolare viveva ed aveva la particolarità di avere uno scalpo indiano sul comodino da notte, ricordo di uno dei suoi viaggi. Il signor Pietro era una persona curiosa, teneva in buona considerazione mia madre come sarta e quando lei, durante qualche discussione per motivi di lavoro, minacciava di andarsene sbattendo la porta, lui prendeva la porta e la scardinava dimostrando così il suo dissenso.

Ma non era l’unico lavoro, un’altro che ha conservato per dieci anni è stato quello al Consolato di Spagna, in cui faceva le pulizie, oltre allo stipendio ogni mese riceveva anche una stecca di sigarette L&M. È rimasta lì fino a che non è cambiato il Console che aveva una moglie molto pressante. Era continuamente intorno a dirle “Limpia aqui” e un giorno, di punto in bianco, ha deciso di andarsene dicendole che da quel giorno avrebbe dovuto “Limpiar” da sola. Il Consolato era proprio a fianco al negozio di mia zia e mia madre dava una mano come stiratrice, anche lì ogni tanto minacciava di andarsene e qualche volta lo faceva, poichè la pagava poco e non sempre subito, ma poi ritornava sempre dietro le sue insistenze. Mia madre era una gran lavoratrice, stimata per questo, ma con un bel temperamento. Spesso ho dovuto assistere a delle scene semiserie in cui era sempre lei a minacciare di andarsene, poichè rispettava chi gli dava il lavoro ma non permetteva che di svalutare la sua opera, anche a costo di dover cercare un’altro lavoro.

Un topo al Parlamento

Tra i clienti del negozio ce n’erano alcuni che erano, a dir poco, stravaganti oltre che facoltosi. Tra questi ricordo in modo particolare la contessa Pichetti che aveva un cane di razza (non ricordo quale) che si chiamava “Conte di Bonsoir”. Poichè aveva il pedigree, partecipava spesso alle mostre canine, possedeva sette cappotti, una pelliccia e mangiava a tavola con la contessa. Non so in che modo ma lei lo raccontava e, conoscendo il personaggio, probabilmente non era una semplice fantasia. Un giorno mia madre per intrattenerla, mentre le preparavano gli abiti da ritirare, ebbe la malaugurata idea di fare un complimento alla bestiola dicendo “Che bel cane signora!”. Quasi urlando rispose indignata ed offesa: “Ah, l’ha chiamato cane!” e uscì dal negozio intenzionata a non rimetterci più piede, per farla tornare ci volle un’azione di alta diplomazia da parte di mia zia.

Ma un’aneddoto ancora più divertente fu quello del topo sulla scalinata del Parlamento. Quel giorno alcuni giovani stavano cercando di uccidere con scope e spazzoloni una pantigana, uscita dalle cantine dei negozi di quei palazzi antichi. La contessa Pichetti, che stava camminando con la zia, inorridì e cominciò a inveire contro di loro riuscendo a farli desistere dal loro intento. Prese la pantigana tramortita, se la mise sulla spalla accarezzandola, rassicurandola con parole sussurrate, e riprese il cammino. La zia Bianca, non volendola contrariare ma al contempo vergognandosi per la situazione, le suggerì di portarla sulla scalinata del Parlamento “Per dimostrare ai nostri goventanti cosa facevano i ragazzi agli animali” e così fece. Roba da matti!

La zia Bianca

Uno dei pilastri della famiglia di mio padre era una delle due sorelle, Carla Bianca. Prima dell’avvento della seconda guerra mondiale aveva un negozio di parrucchiere che, nel periodo post-bellico, ha trasformato in una tintoria, poichè le acconciature delle donne per lo più venivano fatte a casa. Nata in un periodo in cui l’istruzione non era obbligatoria e quella delle figlie femmine addirittura non era ritenuta importante, aveva una buona padronanza della lingua italiana sia parlata che scritta. Sembrava avere innata l’arte oratoria malgrado avesse frequentato la scuola solo fino alla sesta classe. Attribuiva questa dote al fatto di aver letto svariate volte I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni e raccontava di come spesso lo declamasse allo specchio, certamente conosceva il romanzo a memoria. Però io ero una bambina molto curiosa ed ero un po’ incline a non credere a tutto quello che mi dicevano (magari fossi rimasta così). Ho voluto quindi appurare questa cosa di persona aprendo il libro ad una pagina a caso, ho letto alcune parole facendola proseguire fino a che non l’ho fermata. Ho ripetuto l’esperimento in altre pagine, sempre aperte a caso, e non sono riuscita a coglierla in errore. È un vero peccato che sia morta, perchè abbiamo perso una risorsa preziosa se, in una ipotetica società distopica, dovessero far sparire tutti i libri che sono alla base dell’umano sapere. Proprio come la società descritta da Ray Bradbury in Fahrenheit 451, in cui leggere o possedere libri era un reato e il protagonista si unisce ad un gruppo di uomini che custodiscono il patrimonio letterario dell’umanità tramandando a memoria i libri. Mia zia avrebbe potuto tramandare I promessi Sposi, l’avrei vista bene in mezzo a un gruppo di cospiratori in lotta per non disperdere la cultura, in questo era formidabile.

La famiglia paterna

Quella degli Iberti era una famiglia benestante piemontese e vantava, cosa rara all’epoca, ben tre figli laureati su sette. Dei fratelli di mia nonna uno era ingegnere, ricercatore di tesori sepolti in fondo al mare, divenuto un’autorità in materia, e quest’autorevolezza gli è riconosciuta ancor oggi in letteratura. Carlo Lorenzo Iberti fu autore di un libro “Tre miliardi nella baia di Vigo” donato alla Biblioteca dell’Accademia della Crusca, Fondo Pagliai Firenze e di un Commento al Carme De Sepolcri di Ugo Foscolo, inserito nel Catalogo del Polo Bolognese del Servizio Bibliotecario Nazionale al Portale delle Biblioteche Università di Bologna. Era conosciuto come “L’uomo dai 100 milioni” perchè era stato il primo in Piemonte a raggiungere quella cifra nel suo patrimonio, fu poi però spoliato dal fascismo e da allora visse scrivendo libri e facendo conferenze in varie città d’Europa. Don Luigi Iberti invece era diventato prete, fu autore di poesie e libri ed era amico di Don Bosco che allora non era ancora Santo. Lo zio Diamante invece era uno scultore in legno che faceva dei lavori raffinatissimi che venivano ben pagati, dopo però spariva per un periodo e girava per le fiere e per i paesi per tornare solo quando aveva finito i soldi. Degli altri non mi ricordo le vicende poichè forse hanno avuto vite meno stravaganti.

I miei nonni

I miei nonni erano nati alla fine del 1800 in Piemonte, a Rima San Giuseppe mio nonno e a San Salvatore Monferrato mia nonna. Giuseppe Fiore era un’operaio, di poche parole, ha conservato fino ai suoi 90 anni grande dignità e fierezza.

To be continued

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